Pier Antonio Quarantotti Gambini l’ho trovato tra le pagine di uno di quei grandi dizionari storici pieni di citazioni letterarie: la prima cosa che mi ha colpito, o meglio incuriosito, è stata il suo nome, tanto per cambiare, così mi sono ripromesso di avere qualcosa di suo da leggere, e la mia bibliofilia compulsiva mi ha soccorso con un pizzico di fortuna. Del resto cos’è la letteratura, se non una continua scoperta che ci meraviglia?

Ma veniamo al dunque: Pier Antonio Quarantotti Gambini, scrittore istriano nato a Pisino d’Istria nel 1910 e morto a Venezia nel 1965, col suo romanzo L’amore di Lupo (figlio di una seconda stesura del 1964 a partire dal titolo Amor militare) ci porta proprio nel cuore della Mitteleuropa. Siamo a Trieste nel 1919, la grande guerra non è finita da nemmeno un anno. Il piccolo e innocente protagonista, Paolo, vive nelle campagne intorno alla città, nella casa dei nonni, una zona sapientemente tratteggiata dallo scrittore con la sensibilità del pittore, con splendidi sguardi paesaggistici che toccano anche Capodistria; tuttavia a Quarantotti Gambini non manca la precisione del botanico, che aggiunge alle descrizioni la macchia di thuye, pianta ornamentale dalle foglie velenose tipica del posto.

Rovesciando il grande assunto epico di tutta la letteratura occidentale, la guerra non è più strumento di gloria: una medaglia non vale la vita.

La tranquillità apparente della guerra appena terminata viene smorzata dall’arrivo di alcuni soldati italiani che si stabiliscono vicino alla casa di Paolo: sembrano soldati come altri a guerra finita, con le loro spacconate, la poca voglia di tornare a combattere e la necessità impellente di sfogare gli istinti sessuali repressi, ma tutto sommato “bravi ragazzi” che hanno liberato i triestini dal giogo austriaco. Tutto però cambia nel corso della vicenda, gradualmente, fino al punto di rottura: uno dei soldati, col nome di fantasia Lupo, commette un efferato omicidio nei confronti di una ragazzina di cui si era invaghito investendola con un camion, evento che, oltre a tingere il romanzo di giallo (destinato tuttavia a una veloce risoluzione), crea una serie di silenzi e connivenze tra i soldati che quindi, al termine della trama romanzesca, non paiono più così eroici e buoni come all’inizio.

Questo ultimo aspetto lascia spazio al tema centrale del romanzo, la disillusione. Sempre in questo senso, all’inizio si ha quasi un grido malinconico contro la guerra appena terminata, con la costatazione della morte dello zio Manlio: che senso ha in fondo morire in guerra? Farlo con la divisa da generale o da soldato semplice cambierebbe le cose? Rovesciando il grande assunto epico di tutta la letteratura occidentale, la guerra non è più strumento di gloria: una medaglia non vale la vita.

Alla fine, suggellando quasi una beffarda struttura ad anello, la disillusione si applica a un semplice cappello, un fez per la precisione, che l’ex ardito Borsarelli promette di dare a Paolo all’atto del separarsi; ma per il soldato appena congedato l’attrazione verso l’impresa dannunziana di Fiume è troppo forte, quindi parte senza avvisare e viene meno al patto, così il giovane protagonista potrà solo vagheggiare di possedere il particolare copricapo. I fatti fiumani del biennio 1919-20 sono l’unico richiamo (comunque sfuggente) attuato da Quarantotti Gambini verso la macro-storia, nella maggior parte dei casi quasi del tutto messa da parte nel romanzo storico del Novecento.

Del resto cos’è la letteratura, se non una continua scoperta che ci meraviglia?

Questa posizione più popolare si riflette anche sulla creativa lingua dell’istriano che, considerando le varie provenienze dei soldati, si apre agli apporti regionali più disparati, ma che comunque vede prevalere la lingua del luogo di ambientazione, un triestino vivo e colorito (mularia, “monelli”, putelo, “ragazzino”, steure, “tasse”). In questo impasto linguistico fa sorridere che il nonno spieghi a Paolo come un maestro, dopo averla ascoltata dal soldato Crippa, il significato della parola “cagliostrata”, che altro non è che un raggiro, un imbroglio; una parola, questa, che ha vissuto chissà per quanto tempo nella lingua dei parlanti per poi approdare alla letteratura grazie a Quarantotti Gambini, magnifico direttore d’orchestra di una lingua varia e multiforme su cui va a porre come ciliegina sulla torta una sintassi piana e lineare, tutti elementi che, uniti ai precedenti, rendono L’amore di Lupo una lettura scorrevole e leggera, ma non priva di spunti di riflessione.

Massimo Pucetti

Massimo Pucetti

Abruzzese classe ’97 trapiantato da cinque anni nelle Marche, studia per conseguire la specialistica in filologia moderna all’Università di Macerata. Tra i suoi principali interessi ci sono Leopardi, D’Annunzio, il Novecento e questioni di lessicologia, lessicografia, italiano regionale e dialetti. Nutre un amore smisurato per le parole in tutte le loro forme.

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