• Autore dell'articolo: Adriano Raparo

Tanti  sentimenti,  tante  emozioni  in  meno  di  cento  pagine.  Quelle  di  La  linea  delle cure  (2021, Seri  Editore),  commovente  diario  su  un  anno  di  covid,  scritto  da  Mauro  Proietti Pannunzi,  medico  anestesista  a  Villa  dei  Pini  di  Civitanova  Marche.

Oltre  al  diario  dell’autore  –  dal  17  febbraio  al  9  maggio  2020  –  che  occupa  le  prime  43 pagine,  il  libro  comprende  gli  interventi  di  quelli  che  nel  sottotitolo  vengono  definiti  una banda  di  fratelli.  La  banda  che,  in  fondo  al  volume,  verrà  dettagliata  con  metafora  marinara: a  partire  dall’Armatore  (l’amministratore  delegato), Enrico  Brizioli, passando  per la  Capitana, la  direttrice  sanitaria  Nicoletta  Damiani,  per  gli  Ufficiali  di  guardia  e  gli  Ufficiali  di  sala macchine,  il  Commissario  di  bordo  e  via  navigando  fino  agli  infermieri,  i  Marinai  di  prima classe.

Il  dottor Proietti  fa  rivivere  al  lettore  le  sensazioni  provate  nel  corso  della  battaglia  in prima  linea  contro  il  morbo.   Ricorda  la  trepidazione  iniziale:  “Ormai  si  sa.  Il  coronavirus  ha  invaso  l’Italia.  E  noi? Cosa  potremo  fare?  Le  notizie  si  rincorrono.  Faremo  quello  che  in  ospedale  non  possono  più fare?  Vorranno  che  allestiamo  una  rianimazione?  Accoglieremo  pazienti  sani?”.   Rammenta  l’emozione  nell’apprendere  dell’arrivo  della  prima  paziente:  “Sono  sul corridoio  dell’amministrazione,  deserta,  alle  quattro  del  pomeriggio.  Nicoletta,  la  nostra direttrice  sa-nitaria  “capitano”,  mi  guarda  e  mi  dice,  con  il  timore  di  comunicarmelo:  «Mauro, tra  poco  arriva  la  nostra  prima  paziente.»  Sapevo  che  quel  momento  sarebbe  arrivato. Ma  è lo  stesso  un  pugno  allo  stomaco”.   Rievoca  la  paura  per  la  prima  visita:  “Cerco  di  mostrarmi  disinvolto  e  sicuro.  Devo dare  il  buon  esempio.  Ma  mentre  mi  infilo  la  tuta  il  cuore  sembra  impazzire.  Mi  ripeto:  stai calmo,  segui  le  regole,  andrà  tutto  bene.  Entro  nella  stanza  cercando  di  non  pensare  che quella  anziana  donna  che  sto  andando  a  visitare  è  diversa  da  tutte  quelle  che  in  tanti  anni ho  visto  e  che  mi  appare  come  una  minaccia  incombente.  Mi  faccio  portare  l’ecografo,  mi concentro  sulla  sonda  e  sulle  scansioni  da  fare.  Vorrei  restare  il  meno  possibile  lì  dentro.  Ma c’è  da  fare  la  cartella,  l’anamnesi,  un  minimo  di  esame  obiettivo.  Torno  in  infermeria.  Scrivo tutto  con  cura. Poi  la  svestizione  con  un  senso  di  sollievo  e  il  timore  di  sbagliare  qualcosa”.

Così  il  diario  quasi  quotidiano  va  avanti,  come  si  è  detto,  fino  al  9  maggio  2020,  giorno  in  cui viene  dimesso  l’ultimo  paziente. Altrettanto  emozionanti  sono  i  racconti  degli  altri  componenti  della  ciurma, anche  se compressi  nel  breve  spazio  di  una  o  di  due  pagine.  Numerosi  interventi  andrebbero  citati, ma  ci  si  deve  limitare  a  qualcuno.  

Potente  è  quello  dell’anestesista  Mauro  Perugini  che  ricorda  due  errori  di  procedura che  nel  corso  della  carriera  lo  hanno  impaurito  grandemente. Una  volta  ebbe  la  paura  folle  di aver  contratto  l’Hiv  dopo  essersi  punto  con  la  siringa  usata  per  fare  un  prelievo  a  un tossicomane; questa  volta…  ma  lasciamo  a  lui  la  parola: “A  questo  punto  l’errore: staccando la  maschera  fissata  con  il  cerotto,  l’ho  fatta  battere  sul  viso. Poi  istintivamente  mi  sono anche  toccato  il  viso.  Con  i  guanti  sporchi.  Ancora  una  volta  brutti  sogni  e  veglie  notturne  mi attendevano  nella  mia  camera  in  quarantena.  Poi  il  tampone.  Anche  ora  negativo”.

Lieve  e  ironica,  invece,  è  la  chiusa  del  contributo  dell’infermiere  Roberto  Leoni  che nel  post  scriptum  dice  che  si  era  già  accorto  di  un  precoce  invecchiamento  dalla  caduta  dei capelli  e  dal  loro  imbiancarsi,  ma  che  pur  non  potendo  andare  in  bagno  per  ore  e  ore  il pannolone  no,  a  45  anni  non  era  ancora  giunto  il  momento  di  indossarlo.

Molti  degli  interventi  sono  accomunati  dalla  tristezza  di  dover  vivere  isolati  dai  propri familiari, specialmente  dai  bambini, per timore  di  infettarli.   Ma  tutti  i  racconti  ci  mostrano  quanto  sia  grande  il  debito  di  riconoscenza  che abbiamo  nei  confronti  di  coloro  che  ogni  giorno  lavorano  per  noi  rischiando  la  propria  salute. Riconoscenza  che  nel  caso  in  questione  va  a  chi  si  prodiga  in  una  clinica  privata,  così  che  il lettore  chiudendo  il  libro  non  può  che  convenire  col  dottor  Proietti  che  nella  sanità  privata non  si  fanno  solo  nasi  e  tette. 

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