Quello di cui mi appresto a scrivere è sicuramente un romanzo bollato troppo in fretta (e a torto) come opera minore, o comunque di secondo piano: quasi chiunque infatti (almeno fuori dall’Abruzzo) ha trascurato questo piccolo gioiello del firmamento dannunziano. Infatti non sfuggirà ai più come, dopo il superamento dell’anti-dannunzianesimo dilagante soprattutto nel secondo dopoguerra, ci si sia concentrati principalmente sul Piacere, sulle Laudi (in particolare Alcyone) e poco altro, tralasciando parti significative della produzione di D’Annunzio.

Ciò che salterà inevitabilmente agli occhi del lettore, come logica conseguenza dello stretto rapporto vita-arte che segna gran parte della produzione dannunziana, è il marcato biografismo del Trionfo, che fa coincidere la figura del protagonista Giorgio Aurispa, erede di una nobile famiglia di Guardiagrele (CH), con lo stesso autore. Di conseguenza Ippolita Sanzio, l’amante del protagonista, altro non è che l’alter ego di Barbara Leoni (pseudonimo di Elvira Natalia Fraternali), donna amata dal poeta tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta e spesso definita nel romanzo la bella romana; tuttavia bisogna notare che alla data di pubblicazione del romanzo (1894) la relazione con Barbarella è già finita da tempo, lasciando il passo ai nuovi amori del poeta. In questo senso risultano importanti i riferimenti intertestuali al loro carteggio, e anche le allusioni ai malesseri fisici di lei, descritti con minuzia da D’Annunzio attingendo anche ai referti medici di Barbara, sul cui volto splendono i più belli occhi di Roma.

Riporto un breve passo (lettera di lui a lei) per rendere l’idea:

Se penso che tu non ci sei, ecco, il giorno si oscura, la luce mi diventa nemica, la terra mi appare come una tomba senza fondo: ‘io entro nella morte!’.

Il nostro protagonista, come D’Annunzio, si trova a convivere con gli insostenibili problemi di famiglia: il padre malato e sommerso dai debiti (Francesco Paolo, padre di Gabriele, morì nel 1893) e la madre umiliata dalle relazioni extra-coniugali del marito, cosa che accadde puntualmente anche nella vita reale. Ultimo aspetto da non trascurare dell’influsso autobiografico sul romanzo è quello riguardante da vicino il titolo, che allude alla tragica sorte imposta ai due amanti da Giorgio, il quale compie un gesto (quello del suicidio) paventato più volte da D’Annunzio, tormentato appunto dagli stessi patemi del personaggio da lui plasmato.

A differenza della sua creatura letteraria, però, il poeta trova la forza di andare avanti, e di dipingere nel corso del libro una serie di inebrianti cartoline che abbracciano tutto l’Abruzzo nei suoi luoghi naturali, a partire da Guardiagrele, la città di pietra, la fiera Guardia posta a fianco della Maiella; poi si va verso il mare, sulla Costa dei Trabocchi, a San Vito, descritta nel prodigio della vita estiva e delle ginestre in fiore. In particolare il poeta ci accompagna in quello che fu, per usare un’espressione sperelliana, il suo buen retiro nell’estate del 1889 insieme a Barbarella: l’Eremo, ancora oggi visibile (e visitabile su prenotazione), che conferisce il titolo al Libro III. Infine si giunge a Casalbordino, al Santuario della Madonna dei Miracoli, con tutto il suo carico di superstizione e di scene terrificanti, che introduce il punto finale di questa lettura. Giansiro Ferrata ha parlato giustamente di molti romanzi possibili in riferimento al Trionfo, un aspetto evidente nella bipartizione tematica del romanzo: il Santuario di Casalbordino ci apre lo sguardo sulla descrizione realistica e straziante di un Abruzzo arcaico, primitivo e matriarcale, fatto di devozione ostinata, processioni, antichi riti un mondo espresso vivacemente dai proverbi contadini, declinati sapientemente da D’Annunzio (insieme ad altre battute degli interlocutori) nell’autentica parlatura abruzzese, una scelta più estrema e marcata rispetto al verismo verghiano.

Se vogliamo trovare tre parole-chiave di questo romanzo, sarebbero sicuramente queste: Abruzzo, pathos e natura.

Dall’altro lato, questo che è l’ultimo dei “Romanzi della Rosa” risulta anche un capitolo centrale di una sorta di “saga del Superuomo” che culminerà ne Le vergini delle rocce e che tanto deve a Nietzsche: all’influenza del suo pensiero in buona sostanza si possono ricondurre (oltre all’epigrafe posta in calce al titolo) le pagine introspettive in cui entrano in gioco la filosofia, la musica, l’arte e le riflessioni sulla morte che segnano inevitabilmente il romanzo, pagine scritte in una lingua diametralmente opposta al dialetto parlato da Cola di Sciampagna e che strizza l’occhio alla tradizione letteraria, agli aulicismi e agli arcaismi: tutti elementi che insieme tra loro vogliono concorrere alla costruzione di un ideal libro di prosa moderno.

Se vogliamo trovare tre parole-chiave di questo romanzo, sarebbero sicuramente queste: Abruzzo, pathos e natura. Esse costituirebbero sicuramente tre buoni motivi per lasciarsi trasportare in un inconsueto viaggio tra le pagine del Vate.

Massimo Pucetti

Massimo Pucetti

Abruzzese classe ’97 trapiantato da cinque anni nelle Marche, studia per conseguire la specialistica in filologia moderna all’Università di Macerata. Tra i suoi principali interessi ci sono Leopardi, D’Annunzio, il Novecento e questioni di lessicologia, lessicografia, italiano regionale e dialetti. Nutre un amore smisurato per le parole in tutte le loro forme.

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