Pubblichiamo la prefazione di Fernando Pallocchini al romanzo satirico Operazione accompagnamento di Silvio Natali (intervistato da Irene Sdrubolini qui) e un piccolo estratto del libro.

Copertina Operazione accompagnamento

Già apprezzato artista di livello internazionale, Silvio Natali questa volta si cimenta con la letteratura satirica, prendendo di mira quella parte della popolazione italiana fatta di persone che provano a vivere, vivacchiando non prosperando (quelli che imbrogliano le carte a più alto livello si arricchiscono a dismisura restando, sempre e comunque, dei furbi disonesti), attingendo idee dalla loro infinita fantasia, limitata e resa quindi inutile dalla propria ignoranza.

Una storia derivata dalla esperienza medica di Silvio? Già, però portata a un eccesso fantozziano che, se da una parte conduce al sorriso di compatimento sfociante spesso a divertite risate, mette anche in vetrina un vecchio modo di pensare da parte dei meno abbienti (vecchio ma che sempre si rinnova, magari in altre forme più aderenti alla realtà contemporanea) i quali provano a tirare a campare avvinti come l’edera (vecchio testo musicato) alle spalle altrui, nel caso del libro alle spalle dello Stato, quindi della società, quindi… alle spalle altrui per cui la sostanza non cambia.

Un comportamento che deriva sì dalla mancanza di lavoro, dal non sapersi organizzare un livello di vita decente
ma anche da una furbizia a basso chilometraggio, quella che ti fa arraffare in modo miope ciò che hai intorno. Un
po’ un furto con (poca) destrezza, motivato pure dalla voglia di vivere senza lavorare: motivazione esatta e, forse, comprensibile nel principio ma errata nella conclusione, perché la famiglia protagonista del racconto si sobbarca di tanta fatica (financo dolorosissima per alcuni) per arrivare a un niente di fatto. Se sbagliare è umano, perseverare è diabolico… e questi personaggi sono proprio dei diavoletti precipitati da se stessi in un inferno di reiterata confusione.

Come se non fosse già bastante la confusione generata da una particolarità tutta nostrana, quella di battezzare una persona con un nome per poi chiamarla nella quotidianità con un nome diverso. Nella famiglia protagonista del libro, ricca di numerosi componenti, badante compresa (in tutt’altre faccende affaccendata, scriveva il Manzoni nei Promessi Sposi per i suoi 25 lettori), provate a immaginare (se ci riuscirete) quanta caciara nasce
dall’accozzaglia di nomi ufficiali, nomi reali e soprannomi: un estraneo non saprebbe a chi rivolgersi! O anche, se
credente, a quale santo votarsi.

L’arte dell’arrangio, per quanto si voglia organizzarla, codificarla, adattarla via via a una nuova realtà… rimane sempre l’arte delle mancate competenze, del pressapochismo che confida nell’altrui dabbenaggine, della furbizia che nessuno inganna. Tutto ricade sempre sopra i burattini comprimari nel teatrino della vita che, instancabili, continuano nelle loro fallimentari imprese. Magari sono anche felici. Le pagine di Operazione accompagnamento sono come gli specchi presenti nei labirinti dei baracconi: deformanti ma che riflettono, comunque, una realtà.

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Da Operazione accompagnamento di Silvio Natali (Seri editore, 2020)

Parte prima – L’invalido

Era l’otto febbraio, un lunedì livido e freddo come il naso di un cane tibetano, quando finalmente il postino consegnò la tanto attesa raccomandata con l’intestazione della USL n° 3511, indirizzata a Pietro Cippi. Nel silenzio, subito sceso nel piccolo appartamento, si rincorsero rapidi e furtivi sguardi di intesa, mentre la tensione si faceva palpabile come il prosperoso seno di una maggiorata in un autobus affollato di sommergibilisti reduci da una lunga missione in fondo al mare.

Soltanto quando si udì il portone dabbasso richiudersi con un pesante tonfo alle spalle del postino, Mario detto Peppe con il gemello Battista detto Gino, assieme a Laura detta Carla e al piccolo Giampiero detto Gaetanino, si precipitarono su Fernando detto Alberto, cercando di strappargli la busta dalle mani. Si scatenò così un parapiglia indescrivibile che vide Alberto difendere come un leone quanto in suo possesso.

Il primo a farne le spese fu Peppe, il quale ricevette una violenta spallata che gli fece spiccare un volo, lieve e
silenzioso come quello di un aquilone nella tiepida brezza di primavera, per poi farlo ricadere a capofitto contro la scatola in cui, nell’angolo più lontano della stanza, il gatto Fufi detto Sandokan stava sognando una terribile battaglia contro i topi giganti delle Galapagos.

Nella sua strenua lotta, Alberto rifilò quindi una gomitata in bocca a Gino, che seppure balbuziente riuscì ad enumerare in rapida successione i trecentosessantasei santi del calendario, essendo quello un anno bisestile. Si liberò poi con facilità di Carla, assestandole un micidiale pestone sull’alluce destro, laddove sapeva annidarsi un mostruoso callo a cavolfiore. Dovette scalciare invece più volte Gaetanino che gli aveva addentato un polpaccio. E finalmente, una volta fatto il vuoto intorno a sé, con fiero cipiglio balzò in piedi sul tavolo, con lo scatto di
uno sbadato canguro sedutosi su di un istrice in amore nella sconfinata prateria australiana.

Fu soltanto a questo punto che, con fare risoluto, lacerò la busta e lesse. Il silenzio era tornato padrone della
stanza. Tutti, Peppe disteso sul pavimento, Sandokan sulla testa di Peppe, Gino piegato in due con le mani pressate sulle gengive, Carla dritta sulla gamba sinistra, con i denti stretti ed il piede destro sollevato fino al mento, Gaetanino in ginocchio con un brandello dei pantaloni di suo padre tra le labbra, rimasero immobili con gli occhi spalancati e puntati verso Alberto. «Giovedì 18 febbraio, alle ore 9,00!», sentenziò quest’ultimo con la voce rotta da un’emozione liberatoria e la lettera stretta contro il petto. Poi tacque e, quasi improvvisamente incredulo, deglutì.

E deglutirono, sempre nella più completa e silenziosa immobilità, tutti gli altri, gatto compreso, mentre la porta
d’ingresso si spalancava e sulla soglia, stuzzicadenti all’angolo della bocca, basco di traverso, pesante cappotto
spinato, scarpe con spesse suole di gomma, reduce dalla consueta partita a tressette al bar con gli amici, compariva
Pietro Cippi detto Pasquale. In quell’esatto momento, nello sguardo di ognuno si poté leggere l’ansiosa certezza che oramai tutto era nelle sue mani.

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