I morti di tutte le specie (Seri editore, 2021) è il quarto libro della poetessa vicentina Silvia Secco. Questo ha il potere di evocare delle sensazioni forti, a partire dalla lettura del titolo, che sia ad alta voce o in silenzio. La morte è un tema vicino per tutti, che lo si abbia toccato con mano con la scomparsa di un caro o semplicemente sfiorato da lontano, una condizione inevitabile che però non tocca. Nessuno però può avere la pretesa neanche di non farci i conti tutti i giorni; persino mangiare un piatto di pasta è da considerarsi una sfida contro la morte, ricordava sempre una signora che ora non c’è più. Ma questo titolo è un invito, quasi un biglietto da visita a tutta la poesia che segue.

Il libro non si compone in versi separati da titoli come siamo abituati a pensare ma ci invita ad accogliere una visione più ampia, suggerita dalla dicitura di “scene” per indicare il flusso della scrittura della poetessa, che riporta sotto forma di versi la sua ispirazione, che vede la morte come protagonista.

Ma la morte è protagonista anche della vita, della natura, così come della quotidianità… questo ci suggerisce una visione circolare, della ciclicità. Nel libro non è importante un anno piuttosto che un altro, l’infanzia o l’età adulta, tutto scorre e si ripete così come le stagioni:

Il momento esatto che ricorderò nel tempo, / quando il tempo si sarà slacciato da quel pomeriggio/ e tu, bellissima madre dei fiori del campo/ (che durano niente se li raccogliamo, e che non hanno/ odore ma solo, solo meraviglioso ideale di fiore incorrotto:/ soltanto ideale del fiore alla luce, sostantivo).

Non manca inoltre un linguaggio ricercato, una componente metrico-ritmica e fonosimbolica molto solida, come fa notare Vincenzo Bagnoli nella prefazione. Anche le classiche strutture della poesia vengono stravolte, in quanto la poetessa ama creare suggestioni all’interno delle scene di una durata nettamente superiore al consueto, che si intrecciano non soltanto con le immagini, ma anche con la lingua, quella più intima della poetessa, il dialetto vicentino.

Ti porterò a pestare a piedi nudi/ il fresco dell’erba bambina, ti parlerò dell’uva/ – come si inspira l’aria zuccherina dei raggi,/ come si adoperano gli acini a mimare il sole/ in tondo e riverbero.

Oltre ciò risulta un’esperienza interessante sottoporre la lettura al suono delle parole, per comprendere ancor meglio ciò che è stato detto. Farne un’esperienza sonora permette di comprendere l’intenzione delle parole sui tempi e il significato latente delle immagini.

Per portare l’attenzione sulla poesia, qui un estratto dalla Scena 7:

«Sono questa fioritura di novembre: l’edera, lo scuro, il

                                                                                           dimorfismo

fogliare. Io queste di luce, cuoriformi minime, io queste maggiori

                                                                                                   d’ombra

-foglie larghe come palmi, foglie dei luoghi sottostanti –

E sono una, e sono l’altra dentro l’una. Salgo sopra i tronchi

nei millenni vegetali, veglio sopra cedimenti degli anziani

e insisto. E loro, loro sono il cibo quando scendono:

si fondono col seme, lo fecondano nelle radure.

Io, questa mia lingua inconsistente, sono io la scure, il suolo

e sono l’umido del marcio che risale dopo, il fiato che consola

-irrora in superficie – solo fra le corde.

Bisognerebbe dire alle gemme di aspettare, alle gemme

di ogni specie occorrerebbe dire, impastare nella bocca

l’idioma vegetale dei piccoli abitanti delle tane

che si salvano dal fuoco quando amano le faglie là nel covo

sotto i rivoli delle radici. Dovremmo ad ogni specie dire

di aspettare, di aspettare a spingere – a tagliare – e alle gemme

come prime, con la lingua a loro comprensibile,

un dettato universale, linguafoglia ed animale

dire di aspettare, che a volte accade al tuono, all’eclissi lunare,

alle volte accade ai figli di morire prima della madre.

Occorrerebbe dire, a volte, le promesse delle mani,

il cerchio d’oro della fede e l’anulare nudo, la parola dio

che l’uomo ha disegnato, la scrittura dell’istituzione

 -quanto abbiamo rovesciato: quanto abbiamo perso amore mio,

quanto umanamente senza averlo mantenuto –

 un odore d’erba e di cucina, la stagione appena prima della neve

 che prima o poi dovrà arrivare».

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