• Autore dell'articolo: Lorenzo Mari

Pubblichiamo l’introduzione di Lorenzo Mari a Lo spazio e l’onda.

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Guardo quest’antologia da una posizione di triplice prossimità: nello spazio, nel tempo, e anche in un’altra dimensione, inestricabilmente legata al bianco e al nero della pagina poetica. Quel che intendo dire è che mi trovo a lanciare questo sguardo da una regione limitrofa, l’Emilia-Romagna, in direzione dello spazio marchigiano della poesia che – come nel caso emiliano-romagnolo, e probabilmente di ogni altra regione italiana e italofona – trascende la mera appartenenza territoriale, pur trovandovi, allo stesso tempo, molteplici ragioni di specificità. Anche per quanto riguarda il tempo, in effetti, si riproduce una dinamica simile, ritrovandomi personalmente molto prossimo alla generazione – o meglio, a quella generazione che è anche coorte e raggruppamento forzoso di individualità, trattandosi di una antologia under 35 – designata da questo progetto editoriale.

Tuttavia, per un paio di anni e qualche centinaio di chilometri di distanza e, soprattutto, a ragione di quanto avviene nel bianco e nero della pagina poetica, non credo – come mi diceva a suo tempo, bonariamente, di voler fare un amico di qualche anno più anziano di me – di potermi mettere in pantofole e vedere cosa succede tra i giovani. Cerco, piuttosto, di considerare con la maggiore lucidità possibile questa prossimità – accarezzando, ma cercando di evitare gli effetti deleteri dello strabismo – e di trasformarla in una più solida, per quanto mai ingenua o assoluta, solidarietà. Del resto, lo strabismo è da molto tempo, e ancora in anni più recenti, una delle tante traiettorie possibili per l’avvicinamento e per la definizione dello spazio marchigiano della poesia.

Dalle Marche, infatti, si è spesso guardato con molto interesse a quello che succedeva, in ambito poetico, a Bologna, da una parte, e a Roma, dall’altra – tralasciando, invece, le prossimità percepite, a torto o a ragione, come altrettanto, se non più, periferiche (come quelle rappresentate dalla poesia umbra o abruzzese). Grazie a questi slanci, nelle Marche si tornava poi a guardare all’interno del proprio spazio della poesia con rinnovata fiducia letteraria, come nelle chiare parole, a questo proposito, di Franco Scataglini: «[…] “io sono in quanto sono in un mondo”. Il mondo è la residenza. Che poi sia Ancona, Roma, Bologna, Milano non fa differenza. Certo, io il mondo lo conosco davvero non attraverso i mezzi di informazione di massa, ma da come lo esperimento ogni giorno, nella concretezza del mio esistere, laddove vivo, peno e soffro».

L’enfasi di Scataglini sulla residenza rinvia a uno specifico dibattito poetico che è stato molto attivo e fecondo nelle Marche degli anni Ottanta – in un periodo, cioè, in cui tutte le autrici e gli autori qui raccolti non erano ancora nati o lo erano da pochissimo – dibattito che poi si è variamente ramificato, prendendo ora le forme della diaspora, della mobilità e, in tempi più recenti, della nuova residenza o dell’onda, solo per citare alcune definizioni.

Tuttavia, misurare la pertinenza contemporanea di tali categorie è un obiettivo che trascende i limiti di questa introduzione (e non rende giustizia, probabilmente, a molte delle esperienze qui raccolte, per le quali vale invece la formula paradossale di Scataglini: «[…] “io sono in quanto sono in un mondo”. Il mondo è la residenza»); sembra più opportuno segnalare come lo spazio marchigiano della poesia – in funzione del proprio strabismo (e non a discapito, fuori da ogni possibile accusa di provincialismo) – abbia innanzitutto tratto linfa vitale da simili scambi, anche quando questi hanno assunto la forma della disseminazione e della dispersione.

Tanti sono infatti i nomi delle autrici e degli autori di poesia legati alle Marche che hanno lasciato un segno, più o meno ampio, nella storia letteraria italiana del secondo Novecento e dei primi decenni del ventunesimo secolo; tante e tanti lo stanno facendo oggi. Non si citano, qui, per mancanza di spazio e per il timore di tralasciare spunti, appigli e rimandi che sono del resto visibili nei testi antologizzati, ben al di là di quanto sia già contenuto in questa introduzione; allo stesso modo, non si farà menzione dei progetti editoriali e culturali, a carattere tanto festivaliero quanto laboratoriale, che animano ormai da molti anni innumerevoli luoghi della regione, se non per ribadire l’esistenza di una trama culturale ricca, viva e attiva, che supera di molto i limiti concreti dei vari censimenti possibili.

Invece di stilare lunghi elenchi apparentemente ecumenici, ma concretamente poco utili, si intende porre l’accento sul fatto che queste individualità e, per altri versi, queste reti culturali hanno segnato, come si è detto, la storia letteraria italiana del secondo Novecento e dei primi decenni del ventunesimo secolo, e che questo dato contraddice la nota formula icastica di Carlo Bo nella prefazione all’antologia dei Poeti marchigiani del ’900 (Bucciarelli, 1965) curata da Carlo Antognini: «la storia ha saltato le Marche e così ha salvato la vita della poesia». Beninteso, non che il fatto di contribuire a una storia letteraria nazionale possa ribaltare l’assunto storiografico più generale (la storia ha saltato le Marche), ancora visibile in un certo grado nella situazione politica ed economica regionale, ma è rovesciato l’assunto – più consono, forse, alla poetica di Carlo Bo che non a una qualche generalizzazione di fondo – per il quale la vita della poesia marchigiana possa essersi salvata mettendosi al riparo da una storia che l’ha attraversata e continua ad attraversarla.

Paradossalmente, anzi, è stata proprio l’antologia di Antognini a riformulare le coordinate spazio-temporali per la ridefinizione dello spazio marchigiano della poesia operata nei decenni successivi; come ha scritto Massimo Raffaeli: «la storia letteraria regionale può essere, anzi dev’essere, scandita fra un prima e un dopo Antognini: vale a dire fra un deserto e il germe di una piccola polis; fra un sottobosco provinciale (dove asfissiare o evadere) e un luogo intramato da percorsi ormai riconoscibili, autonomi; fra la diaspora degli artigiani (è stato argutamente detto) e la teoria della residenza». Nella complessità delle coordinate spazio-temporali, che qui risulta soltanto accennata, ma che potrebbe essere ulteriormente approfondita e discussa per molte altre pagine, si innesta poi la terza dimensione della pagina poetica, del suo bianco e nero, che ha la capacità di rimescolare e rimettere in gioco tutte le considerazioni precedenti.

Procedendo a una rapida e per nulla esaustiva rassegna degli autori e delle autrici presenti in questa antologia, si possono infatti notare alcune ricorrenze – di tipo variamente intertestuale, stilistico, tematico, politico – che vale la pena tentare di mettere a sistema con le altre considerazioni finora esposte. Preferendo un possibile percorso dell’argomentazione alla rigorosità convenzionale dell’ordine alfabetico, si può forse partire da Riccardo Canaletti, il quale propone quattro testi da Sponde (Arcipelago Itaca, 2019), silloge dominata dal contrasto fra stasi e movimento e dalla presenza/assenza della casa: il rimbalzo tra diverse sponde rimanda certamente allo spazio geografico della regione marchigiana – stretta com’è, fra mare, collina e montagna – ma è anche il segno di un ripiegamento continuo su sé stessi. Del resto è nel «ripiegamento della neve» che «cresce la fiamma»: celebrazione del furor poetico che, nell’inedito presentato in conclusione (intitolato, probabilmente per understatement, “Ceneri”), trasfigura il «cumulo / di neve incarnito» ancora presente in Sponde nella possibilità di una rinnovata, e ardente (e anche, per principio e per generazione, ardimentosa) parola poetica.

Apparentemente speculare è il percorso di Matteo Morea, che, nell’ultimo testo qui raccolto, arriva sul limitare della «nostra sommaria esitazione». Quasi un consuntivo di Remo Pagnanelli diventa «l’ennesimo consuntivo di colpe» nel primo testo qui antologizzato e intitolato, non per caso, Testis contra se. Tuttavia, come già in Pagnanelli e in molti altri autori della tradizione marchigiana e italiana del Novecento, lo scavo non è soltanto introspettivo, o psicologico, dove, ad esempio, a «stenta[re] a lungo nell’atrio del proprio pudore» non è unicamente una riproposizione en travesti dell’io lirico, ma il luogo fisico nel quale «si commisera l’assolo dello spazio».

La stessa oscillazione tra l’indagine introspettiva e un ragionamento sullo spazio attraversa la scrittura di Elisa Des Dorides e Marta Chiacchiera. Elisa Des Dorides scrive dell’aspirazione ad «essere corteccia, / fermi nel tempo / e verdi nel ciclo», orientando così la propria ricerca verso un’ossimorica, ma sempre feconda, profondità della superficie, da collocarsi – com’è evidente anche nel titolo del suo esordio in volume, Nereidi (Pequod, 2019) – in un ambito che è, in prima battuta, naturalistico. Al tempo stesso, però, emerge un dialogo serrato con la storia e con la tradizione poetica, marchigiana e italiana, che finisce per chiamare ancora una volta in causa, in modo esplicito, Remo Pagnanelli: Una lunga vacanza nella terra si chiude, infatti, con un interrogativo che ha tante ripercussioni anche in altri autori e autrici qui presenti: «Fin dove, Remo / si va o non si è mai andati?».

Nella poesia di Marta Chiacchiera, per contro, lo spazio prende forma di casa, ossia di una dimensione che può affermare la propria strenua resistenza nel tempo: «Casa è casa anche se la disconosci». In una scrittura tradizionalmente lirica, del resto, le tracce del genus – mescolando genuinità e ingenuità dello sguardo (non di rado, a carattere naturalistico) – restano evidenti. Vi si associa, tuttavia, una «memoria dolorosa» che, da un lato, afferma ancora una presa soggettiva sul dispositivo memoriale, ma riesce comunque a rimettere in gioco l’intera scrittura poetica verso il luogo e il tempo dove «la fessura si riempie / si ricuce».

Un luogo, dunque, che non si limita a perimetrare l’espressione soggettiva – che, d’altro canto, resta sempre, potenzialmente, ipertrofica – ma si configura come spazio della ferita metaforicamente associata alla scrittura della poesia tramite la nota immagine della perla dell’ostrica, di una bellezza che si produce a partire dalla lacerazione dei tessuti, traslitterando, della carne. C’è la «curvatura continua che riporta / all’origine» della «ferita cicatrice» anche nei versi di Lorenzo Fava, per il quale «[l]a parola è una questione fisica. // Si tratta di vibrare insieme / per- ché ci sia una radice comune», come si legge in Lei siete voi (Lietocolle, 2020). Mentre l’enfasi sulla materialità – come corporeità, ma anche come physis – tornerà anche in altri autori, nelle poesie di Fava sembra prevalere quel percorso, ad essa asintotico, che è la ricerca della radice comune e, ancora di più, lo sguardo che si eleva verso «l’aria, sulla volta delle stelle» dove «si nasconde ancora un codice» a venire.

Codice che ritorna ad essere esplicitamente nominato e tematizzato nella poesia di Emanuele Franceschetti, nel primo testo tratto da Terre aperte (Italic Pequod, 2015): «Questa terra è la lingua degli altri, il codice / estremo, il ventre immacolato che ritrovo / nell’inversione dello sguardo». La radice, qui, è «profanata dal vento», aperta a un processo di continua disseminazione e sfaldamento – un processo contro il quale «resiste», invece, l’immagine: con ottusità, certamente, ma anche con la sicumera di poter dominare tutta un’epoca. Questo si legge, in particolare, in Testimoni, silloge di Franceschetti inclusa nel dodicesimo Quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2021) e nella quale Gabriel Del Sarto ha già ravvisato l’apertura di una «stagione nuova della scrittura» dell’autore.

Alla variazione sul tema di Giovanni Giudici, da Una sera come tante (e le note cavillazioni interiori giudiciane possono essere, almeno superficialmente, associate ai consuntivi di Pagnanelli ricordati nel caso di Morea) e alla predilezione gnomica dei testi precedenti, si va sostituendo uno sguardo a campo aperto, capace di accettare la sfida della testimonianza in presa quasi diretta, e con tutti i rischi che ne possono conseguire (primo fra tutti, ben segnalato e aggirato, quello della falsa coscienza poetica e intellettuale). È verso questo stesso orizzonte, e non di certo per la medesima origine veregrense, che tende la poesia di Michele Bordoni, in virtù, in particolare, del suo impasto di riferimenti eruditi. Proviene da Satie, ad esempio, il titolo del suo esordio, Gymnopedie (Italic, 2018); la sua scrittura trova, però, maggiori corrispondenze in quel Bach che apre “In margine a un saggio di Harold Bloom”, ovvero nel confronto con una tradizione maggiormente canonica. Rispetto a quest’attenzione, che deriva direttamente dagli studi letterari dell’autore (Luzi, ad esempio, è un autore ampiamente studiato da Bordoni e ricorre sia in esergo alla poesia già citata, sia, en travesti, in alcune movenze sintattiche della scrittura), il rischio è sempre quello di un confronto asfittico e delusivo: qui, almeno, si traduce ripetutamente in un lucido interrogativo critico sulla nostalgia – termine che, di fatto, ricorre in più testi – e porta, infine, a uscite liberatorie, rispetto all’imperativo culturale e letterario della residenza, come quelle in cui «bisogna dare aria, spazi, libertà del cielo / a chi cerca la chiusura della terra».

Uno spiraglio attraverso il quale «si ricorda il futuro» si apre anche nei versi di Jacopo Curi a partire dal luogo dove «s’intravedono i luoghi» – formula che, peraltro, può fornire indirettamente un’arguta rielaborazione dello spazio marchigiano della poesia. A partire dall’esordio con L’immagine accanto (Arcipelago Itaca, 2019), la scrittura di Jacopo Curi è scandita in testi perlopiù molto compatti e dal linguaggio particolarmente asciutto e solido, materico. Vi si delinea anche, e a più riprese, un futuro (distopico, ma anche oltre la distopia, come ci ha recentemente insegnato The Silence di Don De Lillo) nel quale «saremo oltre lo schermo / senza connessione», futuro che si sovrappone e crea cortocircuito con la dimensione psicanalitica del regressus ad uterum. Come si può notare anche nel testo inedito – nella chiusa, in particolare, dove «l’aver visto» si accompagna ancora, strenuamente, al «voler vedere ancora» – un possibile collante di queste varie diramazioni è qui, come in altri autori e autrici, la riflessione sulle immagini, declinata da Curi nella promettente lateralità della «immagine accanto», anziché in un processo – potenzialmente infinito, e forse anche consolatorio – di decostruzione/ricostruzione.

L’indagine Delle nostre immagini (Arcipelago Itaca, 2020) è al centro anche della scrittura poetica di Costantino Turchi: in questo caso viene condotta seguendo un approccio paradossale, tra i pluralismi e binarismi variamente irriducibili di un soggetto che è una «moltitudine scissa / in poli». Da questa prospettiva, le nostre immagini – tra virgolette perché mai del tutto appropriabili – si fanno sempre più esili, e sono a tratti soggette a desertificazione, come osserva Umberto Piersanti nella prefazione al libro citato, parlando di una «Weltanschauung dell’autore» che è «deserto e desolazione appena rischiarata da incontri e sguardi». Tuttavia, nell’elegia vegetale inedita – dedicata a una «foglia di ginko» – il processo di mineralizzazione non è ancora completato, se «le robinie / sospendono un profumo / forse di eternità».

In questo panorama risulta notevole il contributo di Giorgiomaria Cornelio, con l’apporto di una possibile e assai affascinante chiave di lettura per la temporalità sempre complessa e stratificata dell’immagine poetica. Per fare questo, anche Cornelio parte dal cuore della tradizione poetica marchigiana: il primo dei testi qui raccolti è infatti dedicato a Remo Pagnanelli, poeta e già curatore di un’altra antologia dei Poeti delle Marche, insieme a Guido Garufi. Anche da questo dettaglio, si intuisce la tradizione variamente articolata e stratificata, non di rado intessuta di riferimenti ed esperienze in altri campi artistici, che Cornelio rende in traduzione poetica. Con la sua scrittura del «forame», o anche del «fora», l’autore esplora, in campo aperto, le mappe più aggiornate del post-Antropocene – dove, però, «[s]appiamo che l’estinzione non è pensabile sino in fondo» – e, soprattutto, di quella scrittura oculocentrica che tanta parte ha avuto e ha nella poesia italiana contemporanea – si pensi, fra i tanti esempi a Ora serrata retinae (1980) di Valerio Magrelli – pur senza addivenire quasi mai a un’autentica messa in immagine che sia, al tempo stesso, fuori dall’immagine. In chiusura di un prezioso testo, intitolato proprio alla salatura delle immagini, Cornelio scrive qualcosa che può e potrà, forse dovrà, valere per molti altri autori qui raccolti: «Quando la poesia è prostrata al quotidiano – a quella rudimentale immediatezza che chiamiamo il quotidiano, il naturale, il ricorrente, l’ovvio, e così via – essa non fa che confermare il suo andamento rovinoso. Quando invece scontenta gli itinerari noti, la poesia può recidere gli incantamenti del linguaggio, restituire evidenza a ciò che ha smesso di mostrarne, soccorrere l’infermità dei pigmenti, e insieme ritornare negli spazi che sembravano più tradizionali per origliarvi il mormorio di un’insurrezione. Questo mormorio è il preludio a una archeologia del possibile».

È un testimone, questo, che sembra essere stato raccolto già in precedenza – in omaggio, dunque, alla multidimensionalità dell’espressione archeologia del possibile, da Giorgia Romagnoli con La formazione delle immagini (Arcipelago Itaca, 2019). Nei testi qui raccolti, l’autrice passa ad esplorare le «zone inaccessibili» alle quali rinvia costantemente il suo secondo lavoro, finora inedito, sulla misura del libro di poesia. Nel primo testo antologizzato, con la «signora col kimono» che «proietta ombre sulla parete» (e sono ombre cangianti, ai confini dell’impossibile), si osserva quella torsione del testo fotografico della quale già Luigi Severi analizzava lucidamente i termini assai peculiari nella sua introduzione alla Formazione delle immagini: «[…] è proprio dal nero, in questi testi fotografici, che erompe sempre qualche stralcio visivo, indistinto o più netto, cosmico o quotidiano: particole luminose, e numinose, di realtà…». Segue un testo che si chiude con uno pseudo-indovinello zen: «il serpente nero si scuote: / cade nel vuoto o nell’acqua?», segnalando un progressivo prosciugamento della scrittura – forse anche della forma, rispetto al polimorfismo rintracciabile nel primo libro – nonché l’apertura verso una tradizione poetica del secondo Novecento e contemporanea che sicuramente eccede lo spazio marchigiano della poesia, proponendone così un rinnovamento che – grazie anche alle frequentazioni e alle traduzioni della poesia in lingua russa già offerte in questi anni da Romagnoli – ha una portata transnazionale.

Per passare ad altro ambito e tematica, un altro poeta che ha misurato la propria scrittura con l’esperienza della traduzione, ma con esiti superficialmente assai diversi, è stato Riccardo Frolloni. È infatti a partire dalla poesia in lingua inglese, della quale Frolloni si è già rivelato abile traduttore, che il poeta trae la propria fascinazione per il verso lungo, apparentemente narrativo e in realtà costellato di squarci più o meno identificabili come lirici, nonché per un registro linguistico generalmente piano ma non troppo – caratteristiche ravvisabili anche nel suo recente esordio in volume, Corpo striato (Industria&Letteratura ed., 2021). Come rivela uno dei testi qui raccolti, l’apertura storico-geografica e culturale è, per Frolloni, un movimento di dislocazione per nulla esterno, e anzi del tutto interno alla storia, lingua e cultura della terra d’origine; il movimento passa rapidamente anche per Bologna, luogo, da anni, di attività culturale e poetica per l’autore e, di nuovo, polo dello strabismo marchigiano già menzionato: «poteva accadere lì o a Bologna, in Piazza / Maggiore, una mattina di cielo bianco, / quel sentimento di bestia sorpresa, che si scopre, s’inganna». C’è un’annotazione, tuttavia, che potrebbe essere tanto emiliana quanto marchigiana – «I partigiani si rifugiavano in montagna, non a valle, troppo scomodo, scoperto, inutile» – e che trova la propria legittimazione non tanto sul piano geografico o culturale, quanto etico-politico, facendo, così, della memoria della Resistenza un segno vivo e riproduttivo di differenza rispetto alla resistenza nel presente (una differenza dagli effetti implacabili anche rispetto all’operato poetico individuale, rispetto al quale richiede costantemente quel lavoro che un tempo si sarebbe definito di autocoscienza).

Un simile sprone etico-politico emerge anche dalla scrittura di Pietro Polverini, per esempio con quell’«indice sommario di sbiadimento» che, in quanto indice, è segno postremo della resistenza di fronte al venir meno di determinate coordinate della realtà. Al tempo stesso, però, la scrittura di Polverini si dichiara esplicitamente come esecuzione «sommaria» – chiedo venia per il gioco di parole eventualmente non iscritto nei testi dell’autore – di tutto ciò che appare destituito di ogni fondamento di verità, come la «posa» del primo testo o il «documento apocrifo» del secondo. Postura moralista, in fondo, che, nonostante sia pienamente legittimata dal motto per il quale mala tempora currunt, acquisisce notevole leggerezza, almeno in superficie, con il sorprendente tema vacanziero, probabilmente di ascendenza rohmeriana, degli ultimi testi.

Più che resistenza, chiama in causa la «resilienza della vita» Michele Ortore, già autore di Buonanotte occhi di Elsa per i tipi di Vydia nel 2014, trovando nella materialità della physis ciò che «permane nel cambiare». E questa è anche la funzione che, nei suoi testi editi e inediti, sembra avere la lingua della scienza, peraltro già indagata da Ortore nel saggio La lingua della divulgazione astronomica oggi (2014): «Nel mio corpo, qui sul ponte, conservo / una sequenza di fosfati e acidi nucleici / che conservano memorie del non / esistere alternativa al nuotare […]». Sono testi costellati da soluzioni formali che, rispetto all’esordio, segnalano un notevole approfondimento del percorso dell’autore in una direzione, probabilmente, post-lirica ma declinata con peculiare arguzia e potenza espressiva.

Lo stato della materia (Arcipelago Itaca, 2020) interessa anche Riccardo Socci, in un continuum che va dalla ripetuta invocazione di un diverso campo disciplinare come quello della fisica («Fisica molecolare, spiegami tu») al tentativo di riformulare un proprio approccio fenomenologico (si veda, a titolo di esempio, il titolo “InSight”), fino alla corporeità, esibita e al tempo stesso impaniata nell’economia libidinale della società contemporanea, di altri testi. Prevale, pur restando probabilmente destinata allo scacco, la ricerca di una vita e di una lingua che si svincolino dalla loro incessante addomesticazione e banalizzazione.

Ricerca in cui si impegna anche la scrittura di Jonata Sabbioni, la cui poesia ha trovato inizialmente accoglienza a metà strada tra le Marche e Bologna, in Romagna, per i primi due libri, Al suo vero nome (L’Arcolaio, 2010) e Riconoscenze (L’Arcolaio, 2015). Vi emerge quell’intreccio tra parole e cose che è tematizzato anche in una prosa destinata a far parte della sua terza raccolta, Cosmoscopio (Arcipelago Itaca, 2020): «Le mie parole, quelle che compongono il mio monologo esterno, il mio pensiero sugli altri – sui corpi esposti, le auto, i rifiuti sui cigli stradali, le teorie sui figli degli altri, il terrore di solitudini pure e mortali – sono cose». L’identità tra parole e cose, naturalmente, non è ingenua, ma passa costantemente attraverso il travaglio del corpo, talvolta scavalcandone persino la fenomenologia fino a vederne – con le fattezze del discorso teorico, innanzitutto, e cioè con un più profondo approccio alla visione poetica – più che «un’impronta», e anzi, la figurazione ai limiti del paradossale di «un’orma in superficie».

Altrettanto incerta sugli esiti dell’operazione memoriale legata alla scrittura è Davide Tartaglia, già autore di Figure del congedo (Pequod, 2014): «Chissà se un’eco rimane del tutto che ci abbandona», recita, a questo proposito, una chiusa fulminante dell’autore. D’altra parte, non sembra praticabile nemmeno l’opzione speculare, se non anche opposta, di riversare tutto nella temporalità dell’istante: «Perché ogni istante è l’istante in cui te ne vai / e quando sembra che spicchi il volo / l’istante esatto della scomparsa / è solo il capitolare, un lampo di buio più fitto». La vita e, ancor di più la scrittura, si prospettano allora come senza riparo, attività di lotta e, ancora una volta, di resilienza, o resistenza, in un campo aperto non più segnato dalla residenza, ma da una più chiara «disappartenenza».

Altri autori ancora hanno messo al centro della propria scrittura problematiche legate alla memoria. È il caso del frammento lirico-sapienziale cui si dedica Francesca De Luca, assegnando titoli – “Il canto del cigno” e “L’impotenza in atto” – che rendono conto in modo assai esplicito della Stimmung secondo la quale, per citare un verso: «I chiodi tornano al loro peso». La misura, nei pochi versi che compongono ciascun frammento, oscilla tra una «estetica del nodo» e l’esortazione, forse con eco montaliana, «Chiedi l’esattezza della voce spezzata» – nell’incertezza costitutiva, dunque, di riuscire infine a mantenere, con la propria poesia, fili memoriali che sono anche fili culturali e poetici.

Tensioni ancora più evidenti e laceranti emergono nella poesia di Samir Galal Mohamed. Dopo la silloge intitolata «Fino a che sangue non separi», inserita nel dodicesimo Quaderno italiano di poesia contemporanea (2015) di Marcos y Marcos, l’autore ha infatti esplorato vari territori, muovendosi all’insegna di una poesia di pensiero che non disdegna, accanto a una certa sentenziosità gnomica, affondi più chiaramente lirici. In questa oscillazione, resta sempre da capire – non come vertigine del dubbio, ma come imperativo categorico che la poesia fissa continuamente davanti a sé – quale sia il luogo della scrittura: se in Damnatio memoriae (Interlinea, 2020) lo sguardo si volge dal passato e dalla memoria verso il futuro («Scrivo in memoria per scrivere di quanto lavoro / ci resta ancora da fare: scrivere, salvare»), facendo della scrittura una possibile scialuppa di salvataggio, in “J’abandonne” – ancora inedito in volume – la scrittura si confronta con l’esercizio di dominio sulla rappresentazione (ma anche, annota sapientemente l’autore, su «chi scrive») che le è costitutivo, allo scopo di cercare interstizi di scrittura dove sia possibile la rinuncia e l’abbandono.

Una preoccupazione che va alla Radice dell’inchiostro, per citare il lavoro recentemente ideato e coordinato da Giorgiomaria Cornelio, cui Samir Galal Mohamed ha contribuito commentando la fotografia di Robert Doisneau, L’encrier de porcelaine (1938), e addivenendo a una lettura che accosta la dimensione del virtuale a quella del possibile, che, come abbiamo già visto, è cara alle archeologie di Cornelio: «Virtuale è, precisamente, ciò che reale lo è già, ma in una dimensione spazio-temporale suppletiva, ulteriore del presente appena compiutosi; un presente all’interno del quale il virtuale esercita una pressione infinitesimale, diversa da quella imposta dal possibile, che si articola sotto al segno dell’aleatorietà della previsione. […] Il virtuale, al pari del segno, si sottrae al binomio atto/potenza, poiché in esso non si costituisce già questa coppia e, d’altra parte, non è già costituito da questa coppia» .

Che sia possibile o virtuale – demandando ad altra sede un approfondimento dell’immane dibattito filosofico che sottende ai due termini – l’orizzonte comune a tutte queste scritture sembra essere quello di una tensione metamorfica che attraversa luoghi più o meno fisici, registri, codici, idiomi – potendo essere rintracciata ad esempio anche nella traduzione di poesia – e si confronta con il richiamo, più o meno accolto, dell’appartenenza o, per altri versi, il dominio pervasivo e spesso deterritorializzante dell’immagine.

In questo senso, il carotaggio critico dell’antologia – qui tentato molto rapidamente – si conclude con l’analisi di altri tre autori la cui scrittura non si pone come paradigmatica, ma almeno come sintomatica, e in modo evidente, di queste metamorfosi. Passando senza soluzione di continuità dai toni della richiesta di soccorso («Qualcuno mi aiuti», incipit del primo testo) all’esortazione moraleggiante, pur nel suo rovesciamento assiologico (in apertura di Piede: «Siate violenti, / ammanettate le bocche, corrompete l’aria…»), la scrittura di Simone Sanseverinati sembra riprodurre, in funzione di questa varietas, diverse posture autoriali senza mai esserne del tutto soddisfatta. La possibile contraddizione arriva anche ad essere tematizzata esplicita- mente in quanto tale (sempre in Piede: «So cosa pensate: / [ora smentisce tutto, ora si volta e ribalta parola dopo parola]»), ma si tratta soltanto di un’anticipazione che rinvia immediatamente a una più ampia questione del corpo, la quale permette, inoltre, in una scrittura saldamente ancorata al dominio della metafora, di riconsiderare ancora una volta la questione del simbolo, nel testo eponimo, con uno sguardo che si intende di recuperata innocenza: «Il bimbo si arrende, scende, / comprende il legame / tra un’insolita opportunità negata / e un simbolo».

Scrittura che punta contemporaneamente in molte direzioni è anche quella di Alessio Ruffoni, come si può osservare sin dal primo inedito, composto da un verso unico, basato su un unico neologismo che presenta simultaneamente quei tratti dell’icasticità, della scatologia e di una creatività ludica non priva di elementi eruditi che si ritroveranno in altri testi qui proposti. Ruffoni sembra mirare a uno straniamento del lettore che ha, in virtù della sua molteplicità, tanti antenati illustri, che vanno dal motto, apparentemente più semplice, di épater le bourgeois – in realtà, non così tanto semplice, se la domanda è, ad esempio: come attuare questo imperativo dentro una poesia che resta attività medio o piccoloborghese anche quando si rivolta contro sé stessa? – al surrealismo. Quel che è più interessante ancora è la presenza di stilemi oggi presenti in molte scritture diverse, dalle scritture di ricerca alle invettive non di rado moraleggianti della poesia civile (o, per meglio dire, in/civile): «Radicchio melanzana e kiwi / s’incontrano per fare pogrom. / Il primo parte per la tangente, il secondo / si dichiara impotente. E la terza / si ritrova con l’uccello. // È una gabbia di matti vegetale, con la rabbia che si fa verde per la disperazione…».

La moltiplicazione metamorfica delle opzioni emerge anche nella scrittura di Mariachiara Rafaiani, contaminando un dettato che si inserirebbe d’ufficio nell’ambito della post-lirica con aperture paradossali, come quello che si legge nel suo testo inedito – «S’apre la realtà e ha più sipari / È una guerra, mi dico, da non combattere» – e, a ritroso, anche nei testi già inclusi nel suo libro d’esordio, Dodici ore (ed. La Gru, 2018): «è che essere qualcosa di definitivo / comporta un omicidio». La rinuncia all’annichilimento implicato da una parola poetica che si intende demiurgica o pienamente assertiva – riscontrabile, ad esempio, nella tematizzazione di Samir Galal Mohamed, e ancora in molti dei contributi presenti nei dialoghi della Radice dell’inchiostro a cura di Giorgiomaria Cornelio – è anche rinuncia a un radicamento esclusivo, come testimonia la poesia di Rafaiani, nel suo itinerario nomadico tra Festa del Perdono (con ogni probabilità, l’omonima via milanese) e ciò che comunque abita «nei quartieri arabi di Granada, / nell’altopiano dei sogni». Dai testi di Rafaiani si può cogliere un ultimo estratto – «affrettarsi così che tutto scolorisca / e osservare da lontano la figura netta delle cose / così da non soccombergli prima d’essere salva» – che fa il paio almeno con un altro verso di Polverini, con il suo «indice sommario di sbiadimento», e probabilmente con molti altri spunti presenti in quest’antologia di cui non si può rendere conto in questa introduzione.

La metamorfosi che si è cercato di delineare in queste righe – trovandone le marche nella scrittura degli autori e delle autrici originari delle Marche – è una forma di opposizione allo sbiadimento, una consapevolezza dello scolorirsi in atto, che aiuta, come nel dettato di Rafaiani, a ritrovare un’osservazione più lucida della «figura netta delle cose», ma anche ad aumentarne la torsione verso orizzonti nuovi. Ora, anche per quanto mi riguarda, in questa metamorfosi non c’è, infine, soltanto prossimità, con il suo intreccio di strabismo e di osservazione da lontano, ma anche una chiamata alla solidarietà, ovvero alla compartecipazione della metamorfosi, che può nascere da questa antologia ed estendersi, poi, nelle opere presenti e future dei singoli autori.

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