Vi proponiamo l’introduzione di Eleonora Pinzuti al suo libro Narrazioni e generi.

Questo è un libro sulla “dicibilità”, cioè sulla possibilità di “dire”. Infatti, la possibilità di espressione è un tema che mi ha sempre interessato. Per secoli, le donne e altri soggetti minorizzati sono stati infatti ‘rappresentati’ senza possibilità di auto-narrazione e sovente finanche la critica non ha potuto infrangere le regole stesse entro le quali si esercitava e si esprimeva. Del resto, mentre scrivo milioni di persone stanno preparando i festeggiamenti per il cinquantesimo anniversario della rivolta di Stonewall.

Ora, l’evento in sé non rientra nel tema dei saggi ma da quella data (come da altre che riguardano i movimenti di emancipazione delle donne e dei neri) emerse una nuova possibilità di “dizione” e di racconto che, attraverso gesti e azioni, avrebbe modificato la società, la letteratura e le relazioni dell’ultima parte del Novecento.
In effetti, quel 28 giugno 1969 si cominciò, con altra voce, a portare ad emersione una parte fondamentale della esperienza umana che si era espressa per secoli in forme elusive o alludenti senza avere avuto mai la dignità della “espressione” condivisa (si pensi a Forster che pospone la pubblicazione del suo Maurice «Dedicato a un Anno più Felice» che arriverà solo nel 1971).

In quegli stessi anni anche i soggetti di colore e il “secondo sesso”, cioè le donne per dirla con de Beauvoir, cominciarono a destrutturare consapevolmente il portato patriarcale del sapere e a parlare una lingua, intesa come insieme di significati autonoma e auto-riconosciuta come tale. Infatti il fil rouge dei saggi qui presentati è in realtà proprio questo: la possibilità di studiare, analizzare e comprendere le implicazioni legate al silenziamento di un intero modo di essere e di tradursi in forma espressiva che travalica il genere o l’orientamento sessuale (usato nei miei saggi solo come lente, simile a quella dell’ottico di Combray di Proust) per interrogare direttamente i concetti stessi di retorica, testualità e società.

A sollecitare la mia personalissima ermeneutica, negli anni in cui questi saggi furono scritti e ora sono presentati (la maggior parte fra il 2008 e il 2013, quando certi temi erano accademicamente improduttivi) è infatti l’analisi di come una categoria soggettiva (il genere e le sue implicazioni sessuali) possa rispondere, se sollecitato, ai molteplici interrogativi della testualità.

Ad affascinarmi era la seguente domanda: come una soggettività minorizzata potesse tradursi nella “dizione”, e come le funzioni retoriche consentissero o contenessero questa imprevedibilità. In ultimo (ma non da ultimo) come il genere, nella sua dimensione storica, canonica, citazionale, si finzioni (cioè si rappresenti tramite la finzione e al tempo stesso produca una performance di sé) nei generi letterari.

A guidarmi in studi che sarebbero stati di ben altra portata ed ampiezza, se non fossero stati interrotti, è sempre stato l’elemento del “recupero finzionale” di quel campo di forze soggiacente al testo (quel che spesso risponde alle funzioni interne dell’intentio auctoris), che si muove nella dialettica fra le capacità di dire non dicendo e quelle di comprendere di un interprete condizionato egli stesso da identici contenuti rappresentativi e censori.

Per farla breve e banalizzando: ad interessarmi è sempre stata la libertà di espressione (con un sintagma logorato dall’uso) e come l’espressione contenuta, censurata, depotenziata, abbia trovato le proprie forme di racconto eludendo il silenziamento doppio dell’immaginario e della possibilità stessa di produrre “dicibilità” (che non si dà senza l’immaginazione, appunto).

Un altro elemento di interesse è come la critica mainstream, il canone dominante, abbia volutamente cassato un intero sapere, l’abbia mistificato, l’abbia negato non solo o non tanto nelle possibilità primarie di espressione, ma anche in quelle della interpretazione, eterosessualizzando autori di altro orientamento, producendo canoni misogini (si pensi alla novella di Alatiel di cui dimostro tutto il portato sessista della critica), inquinando o rendendo ardua quella “verità” che sempre si deve, quantomeno nelle intenzioni, agli studi.

Dunque questa non è tanto una raccolta di saggi sui gender studies (del resto i gender studies sono sempre stati per me un elemento diffrattivo alla Contini) quanto il resoconto di un percorso interrotto che ha come focus il concetto di “dicibilità” narrativa: cosa si può dire in certi contesti storici e come lo si può dire attraverso il filtro del linguaggio im-possibile.

È ovviamente anche un volume che risente della temperie di un’epoca non lontanissima ma – per fortuna – già in parte conclusa. Ho voluto per altro che quel “tempo” restasse anche bibliograficamente cristallizzato, a testimoniare degli strumenti di allora: una sorta di archeologia non mummificante, bensì propellente all’oggi e, confido, al domani.

E mi fa piacere pensare che, nel mio minuscolo operare, abbia dato anche io il mio contributo a studi allora pioneristici. Infatti quando ho saputo che il 17 Maggio 2019, all’Università di Firenze, dove ho studiato e mi sono formata, si sarebbe tenuto un convegno dal titolo Formare e Trasformare le persone e i saperi LGBTIQ+ nel mondo universitario e scolastico, mi sono domandata quanto alcuni aspetti della mia ricerca sui soggetti minorizzati sarebbero mutati se temi simili fossero stati trattati allora: ma come direbbe Proust, nella vita è tutta
questione di cronologia.

Dunque ho gioito della possibilità che l’istituzione accademica inizi a pensare di includere definitivamente certi saperi nel dialogo costante dell’interrogazione, dando a tutti i soggetti di parola e di conoscenza la stessa dignità e lo stesso ascolto. Del resto, dopo la pubblicazione in miscellanee sparse di questi saggi, molti studiosi/e hanno prodotto studi meritevoli su temi sempre meno “eccedenti” e sempre più legati, semplicemente, alla sfera comune e comunitaria del sapere e del vivere.

La speranza è non tanto una “canonizzazione” di metodologie che per loro definizione vogliono sottrarsi ad ogni
processo dogmatico, quanto la loro “prevedibilità” all’interno del mondo accademico. Perché la monologia della dominanza non aiuta il contatto reale degli studi letterari con la società e le sue interpellazioni sempre mutevoli.

E soprattutto perché bisogna essere in molti, in tanti e diversi, per parlarsi davvero.

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